Due ali e la catena del Dna: ecco l’Ardea Purpurea di Bravura

Bravura: “Credo proprio che il mosaico abbia ancora molto da dire, soprattutto in questi nuovi modi espressivi. Mi riferisco a una maniera di usare il mosaico per riportare il colore sulle sculture, per realizzare effetti unici. Utilizzare la decorazione come pretesto per raccontare qualcosa, superando la semplice iconografia. Attraverso una certa leggerezza, si possono creare linguaggi dove ciascuno trova quello che cerca”

E’ stato recentemente pubblicato il libro Ardea Purpurea (Danilo Montanari Editore), che ripercorre i mesi di progettazione e realizzazione della fontana creata dal mosaicista ravennate Marco Bravura, collocata a Ravenna in Piazza della Resistenza. Un libro-catalogo che rende conto, attraverso splendide immagini, del percorso che ha portato alla creazione di un’opera unica, sdoppiata in un gemellaggio che unisce Ravenna alla città di Beirut grazie a questo tangibile segno di amicizia. Due anni di lavoro, dai bozzetti iniziali alla realizzazione interamente in mosaico, con la collaborazione degli allievi dell’Istituto professionale per il mosaico, hanno portato alla nascita di un’opera pubblica di straordinario valore artistico e simbolico.
Abbiamo chiesto a Marco Bravura di parlarci di questo progetto e delle prospettive dell’arte del mosaico.
Come è nato il progetto di Ardea Purpurea?
“Questa fontana ha una storia lunga, bella e particolare. Tutto è nato da Ravenna Festival: mi è sempre piaciuta la sensibilità che questa manifestazione ha avuto fin dall’inizio verso luoghi poco fortunati del mondo, l’idea di portare un tocco di musica e un momento di spensieratezza. Fin dal primo concerto a Sarajevo mi venne questa idea, e modellai con la creta questa “cosa”, che ho pensato da subito a mosaico. Poi il progetto è rimasto lì. L’anno dopo, quando il Festival è andato a Beirut, dalla città stessa è partita l’idea di questo progetto. Era da poco finita la guerra e la fontana prese questa forma: quando si pensa a qualcosa che è stato distrutto e che viene ricostruito viene subito in mente l’idea dell’Araba Fenice (da cui il nome Ardea), a cui si sono associati altri simboli: due ali, la catena del dna…ci sono tutte queste cose, e ciascuno è libero di vedere ciò che vuole.
La fontana di Beirut è praticamente la gemella di questa, poco più piccola, con un rivestimento a mosaico diverso, molto fresco, molto particolare. Il problema è stato il basamento. Secondo il progetto, in loco avremmo dovuto reperire le macerie della guerra: disposte con un certo movimento, diventavano piano piano mosaico grezzo, con pezzi grandi, e salendo assumeva un decoro e un andamento che avrebbe simboleggiato l’idea della ricostruzione. Dalle macerie della guerra poteva rinascere la vita. Ma la gente non voleva ricordare, così abbiamo raggiunto un compromesso, e solo quando sarà il momento attueremo il progetto originale.
Da subito Cristina Muti, a cui il progetto piacque molto, lo pensò anche per Ravenna. L’idea era quella di lasciare dei “segni” dei ponti di fratellanza partiti da Ravenna in ogni città toccata dal Festival. È un progetto che richiede grande forza, ma non è detto che prima o poi non si faccia, magari con una cosa diversa, più piccola”.
Perché una fontana, e rivestita di mosaico?
“La fontana ha una componente di allegria, di libertà: è una sorta di sdrammatizzazione della scultura. E la scultura, dai Greci, è sempre stata colorata. Oggi ci fa inorridire pensare, non so, alla Nike di Samotracia coperta di drappi colorati, ma il senso primordiale era questo. Il tema è quello di ‘come’ colorare oggi le sculture. E penso che il mosaico in questo caso sia una valida risorsa. La mia idea era di fare qualcosa che non avesse un colore particolare, un non-colore che appartiene alle nostre zone, a volte nebbiose a volte color sabbia, una ‘pelle’ grezza che – come nei nostri monumenti – contiene una grande ricchezza. Mi sembra che il mosaico debba avere una sua indispensabilità: se hai un’idea di un certo decoro e di certi colori, e la vuoi realizzare in un certo modo, non puoi che farla a mosaico. Ecco allora che esso ridiventa importante, insostituibile, e utilizzando quella tecnica rendi tutto ciò che ti ispira. E diventa un vero gioco di invenzioni. Ci sono tante letture della decorazione, dei suoi simboli: c’è un forte richiamo all’Oriente, c’è la fortissima connotazione simbolica che ha caratterizzato tutto il progetto, e ci sono tutti i significati che ciascuno può e vuole trovarci”.
La realizzazione della fontana ha avuto anche un risvolto didattico.
“Sì: abbiamo lavorato con gli allievi di tre corsi di mosaico del Centro di Formazione Professionale, in gran parte ragazze, e provenienti da ogni parte d’Italia e del mondo. Gli studenti hanno avuto modo di seguire tutti i passaggi della lavorazione, ed è stata un’ottima esperienza per imparare questo mestiere. Si sono molto appassionati, ma finchè non hanno visto l’opera finita non si sono veramente resi conto. È un po’ come con la realizzazione di un film: si gira prima una scena, poi un’altra e solo il regista ha in mente tutto lo svolgimento. Solo quando si fa il montaggio, l’opera si vede nella sua interezza, e l’attore stesso rimane stupito”.
Qual è la situazione del mosaico oggi, a Ravenna e non solo?
“Credo proprio che il mosaico abbia ancora molto da dire, soprattutto in questi nuovi modi espressivi. Mi riferisco a una maniera di usare il mosaico per riportare il colore sulle sculture, per realizzare effetti unici. A me piace utilizzare la decorazione come pretesto per raccontare qualcosa, superando la semplice iconografia. Attraverso una certa leggerezza, si possono creare linguaggi dove ciascuno trova quello che cerca.
Il mosaico, nella sua storia, ha sempre avuto momenti in cui è stato “dimenticato”. Se guardiamo alla storia del mosaico ravennate, vediamo che dai fasti bizantini c’è stato un black out totale e assoluto fino ai primi anni del dopoguerra. Nel mezzo, una breve riscoperta in epoca fascista, per via di un’idea di monumentalità, ma sempre in chiave propagandistica. Dopo la seconda guerra mondiale si rese necessario un importante restauro, e da quel gruppo nacque poi la cooperativa mosaicisti di Ravenna. Da lì, dalla passione e dalla riscoperta del mosaico tradizionale sono nati laboratori di mosaicisti eccezionali e l’Istituto per il Mosaico. Per merito di quella forza e di quel coraggio il mosaico è rinato.
L’errore più grande che vedo è una sorta di protezionismo, un tenersi strette le proprie competenze senza capire che questo è il modo migliore per soffocare ogni cosa. È dallo scambio e dal confronto che nascono artisti geniali, come accadeva nelle botteghe rinascimentali. Ciononostante, ci sono molti giovani che fanno mosaico, bravissimi. E poi bisogna abbandonare l’idea che l’arte deve durare in eterno: occorre anche un certo “consumismo”. Le opere d’arte vanno valorizzate inserendole all’interno della città, lungo i viali, alle entrate della città stessa: così ci si accorge di trovarsi nella città del mosaico”.

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